Il business dei bimbi “ricollocati”. La nuova e perversa frontiera delle adozioni

di Gelsomino Del Guercio

È in corso un calo generalizzato delle adozioni che ha riguardato tutti i Paesi occidentali e ha determinato una “perdita” di quasi 100mila bambini negli ultimi 15 anni.

Ci sono diversi fattori di difficoltà che sfiduciano l’adozione: l’elevata burocrazia, gli altri costi, ma negli ultimi tempi  sempre più determinante nello sfiduciare i potenziali genitori, è il tipo di minore che si vuole adottare.

Le “difficoltà aggiuntive”
Non solo è aumentata in modo costante l’età media dei minori considerati adottabili, sono cresciute in modo esponenziale le cosiddette difficoltà aggiuntive. Da Paesi come India o Cina per esempio arrivano ormai quasi soltanto bambini dagli 8-10 anni in su, spesso affetti da piccole patologie psico-fisiche. La stessa tendenza che si registra ormai da anni da parte dei Paesi latinoamericani.

Rinunce in aumento e adozioni in netto calo
Quanti casi del genere si registrano in Italia? Non esistono statistiche ufficiali. Tradizionalmente la percentuale delle situazioni così complicate da costringere i genitori ad alzare bandiera bianca era fino a pochi anni fa dell’uno per cento sul totale delle adozioni internazionali.

Ma considerando le segnalazioni che oggi arrivano dalle varie Procure per i minorenni si potrebbero valutare i fallimenti in un 2-3 per cento del totale. Considerando che nel 2017 in Italia le adozioni internazionali sono risultate 1.439, secondo i dati ufficiali diffusi dalla Cai, Commissione adozioni internazionali – erano state 4.130 nel 2010 – i fallimenti potrebbero essere una quarantina l’anno. Ma ripetiamo, si tratta di stime che attendono una conferma.

Il fallimento di un minore “complesso”
Non sembrano numeri imponenti, eppure ciascuna di quelle rinunce porta con sé un carico di dolore e una sensazione di fallimento che dal minore e dalla sua famiglia si allarga all’intero sistema delle adozioni.

Per rispondere al fallimento si dovrebbe puntare su un’altra famiglia più attrezzata? È una strada che non viene mai tralasciata. Ma le coppie con “professionalità” educative adeguate per quasi casi complessi non sono infinite. Oppure si cerca l’aiuto di una casa famiglia o di un centro professionale. Ma per il ragazzo “rifiutato” si apre un percorso tutto in salita, pesantemente gravato da un fallimento di cui si sente totalmente colpevole.

Il caso assurdo degli Stati Uniti
Negli Stati Uniti, invece, il mercato delle adozioni sta diventando perverso: quasi un bambino su cinque viene cacciato dagli adulti che l’hanno legalmente fatto diventare loro figlio. Sono le cosiddette “seconde adozioni”.

Succede dalle 25mila alle 30mila volte l’anno stando al governo americano, che stima che fra «il 10 e il 25 percento delle adozioni falliscono». Una percentuale che sale al 30 per cento per quelle internazionali. Le ragioni citate dalle agenzie governative sono sempre le stesse. E per lo più banali. Mamma e papà non si erano resi conto delle difficoltà di farsi carico di un bambino con un passato difficile. Oppure mettono al mondo un paio di figli biologici e all’improvviso si accorgono che quel bambino “non loro” è di troppo. O semplicemente, «qualcosa non funziona fra di noi».

Per molti di loro, la soluzione è semplice: liberarsi del problema, con un annuncio su internet o presso una delle dieci agenzie statunitensi che si spartiscono il mercato del bambino d’occasione. Un fiume di transazioni umane che fino a una decina di anni fa era del tutto sotterraneo ma che è emerso grazie alle reti sociali. A rendere questi scambi di minori possibile non sono le leggi americane, quanto una mancanza di regolamentazioni e la frammentazione del panorama legale fra Stato e Stato.

Il trucco della “procura”
Se le adozioni ufficialmente devono essere gestite dai tribunali e l’idoneità dei futuri genitori va verificata dai servizi sociali, esistono modi per aggirare i controlli. I bambini possono essere inviati rapidamente a una nuova famiglia semplicemente con la firma di una “procura”, una dichiarazione autenticata che dichiara il bambino come affidato alle cure di un altro adulto.

Questa flessibilità era stata pensata per permettere ai genitori che hanno difficoltà temporanee di mandare i propri figli a vivere per qualche tempo presso un parente di fiducia. Ma è una scappatoia che mette le famiglie in condizione di trovare estranei disposti a togliere loro di torno dei figli non più desiderati.

Noralyn “usa e getta”
Con una procura, i nuovi tutori sono in grado di iscrivere un bambino a scuola o di ottenere sussidi statali, senza l’intrusione delle autorità di assistenza ai minori. Facebook e molti gruppi Yahoo hanno reso la cessione di bambini adottivi – che speso comporta un passaggio di denaro – ancora più facile e veloce. Su un sito di rehoming (“ricollocamento”), ad esempio, si trova Noralyn. Ha 13 anni ed era stata adottata da una famiglia che aveva già due figli.

I genitori sono avanti con gli anni e lei, si legge nell’annuncio, se ne prende cura, così come dei suoi fratelli. Noralyn, prosegue il suo dossier è «pragmatica e compassionevole. Sa cucinare, è in grado di preparare piccoli piatti da sola. È gentile, dolce e sa aiutare gli anziani e i disabili. Fa di tutto per rendersi utile e farsi voler bene. Non è timida ed è brava in disegno. È sana e in forma. Ha una buona igiene personale».

Perché improvvisamente è di troppo? «Non ci siamo trovati bene, non faceva per noi, non è colpa di nessuno», spiegano brevemente mamma e papà, contattati via email (Avvenire, 13 agosto).

La battaglia di Melanie
Un argine contro questa prassi del “ricollocamento” sta provando a costruirlo Melanie Hoyt, neo-mamma americana di due fratellini (Art e Jake) che erano stati presi e poi non più voluti, che collabora con uno studio di avvocati dell’Illinois, Mevorah, per portare il fenomeno all’attenzione dell’autorità

“Perché liberarsi di quelle creature?”
Melanie racconta così i casi di cui in questi anni è stata testimone diretta: «Alcuni genitori, i quali avevano deciso di liberarsi del nuovo membro della famiglia, trovavano online una nuova famiglia per i figli che non volevano più. Ripensando al processo rigoroso al quale io e mio marito ci siamo dovuti sottoporre prima di accogliere Art e Jake, nella mia mente sorgevano immagini di bambini inviati a persone impreparate o, peggio, a pedofili. E il mio cuore si riempiva di collera per i genitori. Come potevano abbandonare delle creature alle quali avevano promesso di dedicarsi per sempre?».

Le aspettative di “adorazione”
Melanie ha al suo fianco anche un’amica psicologa, Miriam Klevan, che mette in contatto con le famiglie adottive a corto di risorse affinché le aiuti a trovare una soluzione.

«La maggior parte dei genitori vuole essere amata – spiega Klevan –. Ma se vuoi essere il genitore di un bambino traumatizzato, non puoi avere questo tipo di attese. Devi superare le aspettative di adorazione ed essere soddisfatto se riesci a insegnare a questo essere umano a crescere emotivamente e a essere indipendente. Purtroppo molti genitori adottivi non riescono a rinunciare al sogno della famiglia idilliaca. È un problema sociale, oltre che legale, che mi sono impegnata a rettificare».

Lo “Stop” di un giudice a New York
Altre persone conducono sforzi simili in tutto il Paese. Edward McCarty, un giudice della contea di Nassau (New York), ad esempio, ha impedito più di un caso di rehoming, sebbene la pratica non sia esplicitamente proibita nello Stato di New York, e ha segnalato i minori coinvolti ai servizi sociali. Più volte ha, inoltre, implorato l’Assemblea legislativa statale di chiudere la scappatoia legale che attualmente consente le riadozione di un minore.

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Stop alla pena di morte: il Papa cambia un paragrafo del Catechismo

“Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi. Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che ‘la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona’, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.

Così parlava papa Francesco l’11 ottobre 2017, in occasione dell’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Ma la firma ufficiale, che attesta l’approvazione della nuova redazione del Catechismo in tema di pena di morte porta la data dell’1 agosto 2018. La pena di morte, dunque, viene ora esclusa in termini assoluti e definita “inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”.

La precedente versione del Catechismo sull’argomento, già emendato nel 1995 dopo le affermazioni di Giovanni Paolo II nella Enciclica Evangelium vitae, considerava “praticamente inesistenti” i casi di assoluta necessità della pena capitale, ma non la escludeva del tutto. “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l`ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti»”.

Secondo il cardinale Ladaria, autore di una lettera ai Vescovi che accompagna il Rescritto, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,  l’aggiornamento non va considerato in contraddizione con gli insegnamenti anteriori, che potrebbero “spiegarsi alla luce della responsabilità primaria dell’autorità pubblica di tutelare il bene comune, in un contesto sociale in cui le sanzioni penali si comprendevano diversamente e avvenivano in un ambiente in cui era più difficile garantire che il criminale non potesse reiterare il suo crimine”.

Del resto, una sempre più forte sensibilità contro la pena di morte serpeggiava nella Chiesa da tempo. Lo stesso Giovanni Paolo II si espresse più volte contro quel provvedimento. Nel Messaggio natalizio del 1998 aveva auspicato «nel mondo il consenso nei confronti di misure urgenti ed adeguate […] per bandire la pena di morte».  Il mese successivo, dagli USA, aveva ribadito: «Un segno di speranza è costituito dal crescente riconoscimento che la dignità della vita umana non deve mai essere negata, nemmeno a chi ha fatto del male. La società moderna possiede gli strumenti per proteggersi senza negare in modo definitivo ai criminali la possibilità di ravvedersi. Rinnovo l’appello lanciato a Natale, affinché si decida di abolire la pena di morte, che è crudele e inutile».

Nicaragua: sparano sui sacerdoti, una donna grida: non avrete il perdono di Dio!

di Antonella Sanicanti

E’ vergognoso quello che sta accadendo in Nicaragua;  l’uomo si ricordi  di non mettersi mai contro Dio, di non sfidare il Signore. Si Ricordi che ogni potere che è stato dato all’uomo è stato concesso dal Creatore!

Tutta la Chiesa, in Nicaragua, è, purtroppo, sotto attacco, poiché il Governo Sandinista, il cui Presidente è Daniel Ortega, usa le forze armate contro chiunque si opponga ai suoi dettami, senza distinguere o salvare nemmeno Vescovi e sacerdoti, che cercano di portare pace tra le varie fazioni in campo.

Come mostra il video che segue, anche il clero e i volontari, che soccorrono i rifugiati o le vittime degli agguati, subiscono la stessa sorte.

Il Presidente Daniel Ortega è arrivato ad accusare di satanismo i prelati, parlando di una sorta di congiura nei suoi confronti, poiché essi sarebbero gli artefici delle ribellioni contro la sua politica. In effetti, la Chiesa, in Nicaragua, sta cercando di mediare tra il popolo e il Governo, ma la situazione non fa altro che peggiorare, ora dopo ora, proprio a causa delle reazioni del Presidente.

Dunque, ogni Vescovo, ogni sacerdote, come tutte le persone loro vicine, sono stato ritenute responsabili delle rappresaglie e cospiratori. Ed ecco i nomi di alcuni esponenti della Chiesa che hanno subito gravi attentati: l’Arcivescovo di Managua, il Cardinale Leopoldo Brenes; il nunzio Waldemar Stanisław Sommerta; il Vescovo Juan Abelardo Mata, ex Vice Presidente della Conferenza episcopale e ultimo incaricato del dialogo -a quanto pare impossibile- tra il Governo e la società civile.

E gli attacchi si perpetuano dal 19 Aprile ed hanno provocato, sino ad ora, 350 morti e centinaia di migliaia di feriti.

La situazione è davvero insostenibile e, come ribadisce il Cardinale Brenes: “È triste che questo evento si sia verificato, è una grave mancanza di rispetto che sta avvenendo, è deplorevole e spero che tutto questo possa essere fermato, perché non è possibile che questa situazione continui”.

Intanto, le forze armate del Presidente Daniel Ortega, ormai, entrano anche nelle chiese e sparano contro chiunque si opponga alla tirannia dilagante.

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La tratta dei bambini, uno dei più gravi crimini contro l’umanità

A Vienna il seminario “Child Trafficking – From Prevention to Protection” organizzato dalla Presidenza Italiana in esercizio OSCE 2018
Il traffico dei bambini: una delle aberrazioni criminali più drammatiche e raccapriccianti del nostro tempo. Se n’è parlato a Vienna, in occasione del seminario “Child Trafficking – From Prevention to Protection”, organizzato dalla Presidenza italiana in esercizio OSCE 2018 con il supporto dell’Office for Democratic Institutions and Human Rights (ODIHR). Alla conferenza, è intervenuto Salvatore Martinez, presidente della Fondazione Vaticana “Centro internazionale Famiglia di Nazareth”. In particolare, Martinez è giunto nella capitale austriaca nella veste di rappresentante personale della Presidenza italiana in esercizio all’Osce, con delega alla “lotta al razzismo, xenofobia, intolleranza e discriminazione dei cristiani e dei membri di altre religioni”.

Martinez non ha usato giri di parole nel descrivere il fenomeno della tratta dei bambini, che ha peraltro caratterizzato come “omertoso”, mettendo l’accento sulla “consapevolezza che siamo di fronte ad uno dei più gravi crimini contro l’umanità”. Un reato, ha proseguito, che evidenzia anche l’incapacità del mondo politico e dei governi di fornire risposte strutturali a una piaga “che è di grandissima attualità”.

Di fronte a tale incapacità, quello della comunità internazionale è certamente un drammatico fallimento. Soprattutto perché l’impegno quotidiano di tante organizzazioni no profit dimostra che le soluzioni sono possibili, che si può intervenire fattivamente in difesa delle vittime innocenti di  Martinez ha anzi denunciato una progressiva “politicizzazione del problema”, estremamente grave perché  “questi sono fenomeni che non possono essere strumentalizzati e politicizzati perché si sta parlando di diritti fondamentali degli uomini. È importante – ha dichiarato – che gli Stati creino protocolli comuni d’impegno e di rispetto alle tante lacune e anomalie che la questione presenta”.

“Diciamolo senza mezze misure: la tratta di esseri umani è un crimine contro l’umanità – ha poi tuonato il presidente del “Centro internazionale Famiglia Nazareth – una forma di schiavitù che se, di fatto, è sempre esistita nella storia umana, le democrazie moderne oggi stanno sempre più favorendo con il consolidarsi di vecchie e nuove povertà”. Soprattutto, Martinez ha rilevato come tale fenomeno sia sempre esistito, “ma oggi si sta accentuando perché le democrazie moderne, in nome della felicità di pochi, finiscono per impoverire molti consolidando vecchie povertà”.

Anche se non è possibile quantificare il fenomeno, perché non esiste un osservatore unitario, certamente si sa che è più diffuso di quanto si potrebbe pensare: e non solo nei Paesi del terzo mondo, ma anche in Europa. Come se non bastasse, ogni approssimazione è sempre per difetto, perché sono tante, troppe le persone scelgono di non denunciare, per paura delle conseguenze.

Come combattere tale drammatica piaga? Per rispondere a questa domanda, Martinez fa riferimento al concetto di “discontinuità sociale”. “Quando parlo di discontinuità sociale, faccio riferimento al fatto che c’è un mondo imprenditoriale disposto ad investire per un vantaggio di tutti”, ha spiegato. Una forte discontinuità sociale è necessaria soprattutto dove il mondo politico non si mostra all’altezza di rispondere alle sfide. “Dal seminario è emerso che c’è tanta buona volontà che viene dalla società civile e che merita di essere segnalata. In riferimento alla discontinuità generazionale serve che le nuove generazioni si impegnino verso questi temi che purtroppo non vengono affrontati nelle scuole e nelle università”, ha concluso.

Che fine hanno fatto i diritti umani?

Si è celebrato nelle scorse ore il 25esimo anniversario della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani. Un anniversario complicato, per le tante violazioni compiute in varie parti del globo, e perché, dopo gli Stati Uniti, anche Israele ha appena annunciato l’intenzione di lasciare il Consiglio dei Diritti Umani. Non a caso, nel suo schietto discorso, l’Alto Rappresentante ONU per i Diritti Umani, il principe giordano Zeid Ra’ad Al Hussein, ha detto che, a un quarto di secolo da allora, il mondo sembra essere guidato “in tutt’altra direzione”.

In quale direzione? “Indietro”, ha specificato l’Alto Rappresentante, “ad un panorama di nazionalismo sempre più stridente e a somma zero, dove gli interessi a breve termine gelosamente custoditi dei singoli leader superano la ricerca di soluzioni ai nostri mali comuni”. Viviamo, per Al Hussein, in “un’era di disprezzo per i diritti delle persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case, perché le minacce che affrontano sono più pericolose dei pericoli del loro viaggio”. 

“Indietro”, ha proseguito, “in un periodo di guerre per procura, regionali e globali, in un tempo in cui le operazioni militari potevano colpire deliberatamente civili e ospedali e gas chimici potevano essere apertamente utilizzati a scopi militari”. “Indietro”, ha chiosato, “in un’epoca in cui le critiche venivano criminalizzate e l’attivismo per i diritti umani portava alla prigione, o peggio”.  Un panorama fosco, quello dipinto da Al Hussein. Che qualche mese fa non risparmiò una piccata critica alla gestione italiana della crisi migratoria, definendo l’accordo tra Roma e Tripoli per contenere i flussi migratori verso l’Europa “inhuman”, “inumano”.

Proprio in tale contesto, la celebrazione del 25esimo anniversario della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani assume un’urgenza ancora maggiore. Perché riporta alle menti quel 1993, quando 171 Stati del consesso internazionale adottarono la Dichiarazione di Vienna e il Programma di azione, proprio allo scopo di rafforzare i diritti umani nel mondo. Un evento visto come la pietra angolare per i diritti nel mondo post-Guerra Fredda.

Introducendo la Conferenza di martedì, Al Hussein ha in particolar modo denunciato la deriva in corso verso un mondo in cui “razzisti e xenofobi rintuzzano deliberatamente le scintille dell’odio e della discriminazione nell’opinione pubblica”, alzando il livello di attenzione sull’Europa, dove movimenti “etno-populisti” “fomentano odio e divisione”, diffondendo “visioni false e distorte” sui migranti e sull’attività degli attivisti dei diritti umani.

Sottolineando le numerose minacce che affliggono i diritti umani in tutto il mondo, non più trattati come priorità ma “come un pariah”, l’Alto Rappresentante ha lanciato un appello globale: quello di difendere il valore e il significato della Dichiarazione di Vienna. “Dobbiamo usare questo anniversario per cominciare a mobilitare una comunità sempre più ampia, per difendere i diritti umani con la nostra forza e il nostro impegno appassionato”. Perché quello che stiamo vivendo, ha chiosato, è un “punto di svolta”: e la speranza è che la Dichiarazione non finisca per diventare un pezzo da museo delle cere, ma, piuttosto, “la bandiera per un movimento rinascente per costruire la pace e il progresso”.