Leonardo Cenci su “Italy Run”: “Onorato di correre con gli italiani”

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Anche Leonardo Cenci, maratoneta assurto all’onore delle cronache per la sua coraggiosa lotta contro il cancro, parteciperà a “Italy Run by Ferrero”, la corsa degli italiani a Central Park in programma domenica 3 giugno in occasione delle celebrazioni della Festa della Repubblica. Ma, rispetto alle maratone a cui è abituato, ammette: “Per me sarà una passeggiata…”

 

Il Console Genuardi e la New York Road Runners lanciano la corsa degli italiani

Allegria, entusiasmo, sport, buon cibo. All’evento di presentazione di “Italy Run by Ferrero” che si è tenuto presso la sede della New York Road Runners si respirava emozione vibrante per la corsa, la five mile race, in programma per domenica 3 giugno a Central Park. Una corsa che colorerà per l’occasione il parco più famoso di Manhattan dei colori della bandiera italiana, e alla quale sono attesi ben 11mila partecipanti.

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Emozionato e felice anche il Console Generale, il ministro Francesco Genuardi, che, dopo aver ricevuto la pettorina con il proprio nome in previsione della sua partecipazione alla competizione, ha ringraziato la New York Road Runners, Ferrero e i tanti sponsor che supportano l’iniziativa per il loro prezioso contributo. E ha ricordato il primato  internazionale dell’Italia nello stile di vita sano, grazie alla passione per lo sport, ma anche – naturalmente – per l’ottimo cibo che imbandisce tradizionalmente le nostre tavole. Non a caso, il succulento rinfresco a base di pizza, verdura e frutta ha ulteriormente allietato gli ospiti accorsi all’evento. Altrettanto emozionato e felice George Hirsch, Chairman della New York Road Runners, che si è augurato, tra gli applausi dei partecipanti, che sia un italiano a vincere la corsa. E ora, non resta che indossare le scarpe da corsa: pronti, partenza, via!

 

 

“Italy Run by Ferrero”: il 3 giugno a Central Park la corsa degli italiani

Una five mile race tutta italiana organizzata grazie alla partnership tra Ferrero e la New York Road Runners

Il 3 giugno, il tricolore sventolerà a Central Park. In occasione del weekend dedicato alle celebrazioni della Festa della Repubblica, si terrà infatti una five mile race, tutta rigorosamente italiana, organizzata grazie all’inedita partnership tra Ferrero e la New York Road Runners, organizzazione nota nella Grande Mela e in tutto il mondo, nata per “ispirare le persone attraverso la corsa”.

Organizzazione, peraltro, dove scorre sangue nostrano: perché il suo presidente e CEO, Michael Capiraso – come chiaramente suggerisce il cognome – è figlio di immigrati italiani: la sua famiglia giunse a New York nel lontano 1910 e, come lui stesso ha raccontato in occasione dell’evento di presentazione al Consolato Generale d’Italia a New York, fu suo nonno a ispirarlo nel mettere in piedi una corsa tutta italiana, da considerarsi simbolicamente un vero e proprio omaggio ai suoi avi e a tutti gli emigrati. “Mio nonno mi disse: ‘Michael, assicurati che potremo fare una competizione di corsa italiana a Central Park”, ha confessato Capiraso durante il suo intervento al Consolato, ricordando le sue origini. Promessa, è proprio il caso di dirlo, orgogliosamente mantenuta.

Altro che “pizza e mandolino”, insomma: lo spirito italiano che pervaderà il parco più famoso di New York sarà all’insegna della tenacia, del coraggio, della capacità di mettersi in gioco, della volontà di tagliare il traguardo a testa alta. Tutte caratteristiche tipiche degli italiani negli States, che hanno lasciato, con dolore e speranza insieme, dietro le spalle la propria magnifica patria per costruirsi un futuro di opportunità nella “Terra promessa” a stelle e strisce. Non solo: gli italiani a New York sono noti anche per le loro capacità atletiche, visto che, negli ultimi anni, hanno sempre costituito il primo o il secondo gruppo straniero nella Maratona più famosa della Grande Mela.

Un’iniziativa resa possibile dalla visione del gruppo Ferrero, che con le sue delizie ha fatto crescere tanti bambini italiani e non solo, e che per l’occasione distribuirà la sua famosissima Nutella,  e dalla partecipazione di altri sponsor: Fiat, Lavazza, Technogym e Intesa San Paolo. Non solo: il 3 giugno ci sarà spazio anche per la beneficienza. Perché gli atleti potranno decidere di sostenere l’American-Italian Cancer Foundation (AICF), charity con sede a New York attiva nel supportare la ricerca sul cancro. Basterà effettuare una donazione durante le iniziali procedure di registrazione, o visitare il sito di AICF.

Come da tradizione per la Maratona di New York, alla vigilia della corsa, nella Parrocchia di Our Lady of Pompeii nel Village sarà celebrata una messa di benedizione degli atleti. Un’occasione per pregare insieme, e prepararsi a una competizione che sarà innanzitutto un gioioso omaggio all’Italia e agli italiani. Rigorosamente, con le ali – anzi, le scarpe da corsa – ai piedi.

 

 

 

 

 

La tratta dei bambini, uno dei più gravi crimini contro l’umanità

A Vienna il seminario “Child Trafficking – From Prevention to Protection” organizzato dalla Presidenza Italiana in esercizio OSCE 2018
Il traffico dei bambini: una delle aberrazioni criminali più drammatiche e raccapriccianti del nostro tempo. Se n’è parlato a Vienna, in occasione del seminario “Child Trafficking – From Prevention to Protection”, organizzato dalla Presidenza italiana in esercizio OSCE 2018 con il supporto dell’Office for Democratic Institutions and Human Rights (ODIHR). Alla conferenza, è intervenuto Salvatore Martinez, presidente della Fondazione Vaticana “Centro internazionale Famiglia di Nazareth”. In particolare, Martinez è giunto nella capitale austriaca nella veste di rappresentante personale della Presidenza italiana in esercizio all’Osce, con delega alla “lotta al razzismo, xenofobia, intolleranza e discriminazione dei cristiani e dei membri di altre religioni”.

Martinez non ha usato giri di parole nel descrivere il fenomeno della tratta dei bambini, che ha peraltro caratterizzato come “omertoso”, mettendo l’accento sulla “consapevolezza che siamo di fronte ad uno dei più gravi crimini contro l’umanità”. Un reato, ha proseguito, che evidenzia anche l’incapacità del mondo politico e dei governi di fornire risposte strutturali a una piaga “che è di grandissima attualità”.

Di fronte a tale incapacità, quello della comunità internazionale è certamente un drammatico fallimento. Soprattutto perché l’impegno quotidiano di tante organizzazioni no profit dimostra che le soluzioni sono possibili, che si può intervenire fattivamente in difesa delle vittime innocenti di  Martinez ha anzi denunciato una progressiva “politicizzazione del problema”, estremamente grave perché  “questi sono fenomeni che non possono essere strumentalizzati e politicizzati perché si sta parlando di diritti fondamentali degli uomini. È importante – ha dichiarato – che gli Stati creino protocolli comuni d’impegno e di rispetto alle tante lacune e anomalie che la questione presenta”.

“Diciamolo senza mezze misure: la tratta di esseri umani è un crimine contro l’umanità – ha poi tuonato il presidente del “Centro internazionale Famiglia Nazareth – una forma di schiavitù che se, di fatto, è sempre esistita nella storia umana, le democrazie moderne oggi stanno sempre più favorendo con il consolidarsi di vecchie e nuove povertà”. Soprattutto, Martinez ha rilevato come tale fenomeno sia sempre esistito, “ma oggi si sta accentuando perché le democrazie moderne, in nome della felicità di pochi, finiscono per impoverire molti consolidando vecchie povertà”.

Anche se non è possibile quantificare il fenomeno, perché non esiste un osservatore unitario, certamente si sa che è più diffuso di quanto si potrebbe pensare: e non solo nei Paesi del terzo mondo, ma anche in Europa. Come se non bastasse, ogni approssimazione è sempre per difetto, perché sono tante, troppe le persone scelgono di non denunciare, per paura delle conseguenze.

Come combattere tale drammatica piaga? Per rispondere a questa domanda, Martinez fa riferimento al concetto di “discontinuità sociale”. “Quando parlo di discontinuità sociale, faccio riferimento al fatto che c’è un mondo imprenditoriale disposto ad investire per un vantaggio di tutti”, ha spiegato. Una forte discontinuità sociale è necessaria soprattutto dove il mondo politico non si mostra all’altezza di rispondere alle sfide. “Dal seminario è emerso che c’è tanta buona volontà che viene dalla società civile e che merita di essere segnalata. In riferimento alla discontinuità generazionale serve che le nuove generazioni si impegnino verso questi temi che purtroppo non vengono affrontati nelle scuole e nelle università”, ha concluso.

Falcone scoprì il Signore grazie all’Azione Cattolica e a un carmelitano scalzo

Di Gelsomino Del Guercio

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Si parla poco della fede di Giovanni Falcone. Eppure, il magistrato ucciso dalla Mafia nella Strage di Capaci, è stata una persona molto vicina alla Chiesa.

Nel tempo se ne è allontanato, ma la sua formazione cattolica non l’ha mai dimenticata. Come dimostrerà un episodio che sarà rivelato dalla sorella qualche anno fa.   

Azione Cattolica e parrocchia

Falcone nasce a Palermo il 19 luglio del 1939 da una famiglia borghese. Ad avvicinarlo alla fede è sopratutto la madre, molto religiosa che lo coinvolge sin da bambino alla vita della chiesa. Fa il chierichetto alla santa messa, frequenta l’Azione Cattolica, trascorrendo gran parte dei suoi pomeriggi in parrocchia.

Il richiamo del papà

Maria Falcone, la sorella, nel libro “Giovanni Falcone, un eroe solo”, rivela un piccolo aneddoto sulla Prima Comunione del fratello.

«Mio padre riuscì a rimproverare Giovanni il giorno della sua Prima Comunione. Durante la funzione era visibilmente distratto. Seduto al primo banco con gli altri suoi coetanei, che come lui dovevano ricevere il sacramento, continuava a girarsi per cercare noi familiari con lo sguardo».

Padre Giacinto

Il futuro magistrato, in quegli anni fa la spola tra le parrocchie di Santa Teresa alla Kalsa e quella di San Francesco, nel cuore di Palermo. Nella prima conosce padre Giacinto, un carmelitano scalzo, che diventa il suo cicerone e gli fa visitare il Trentino e Roma. Sono i suoi primi due viaggi lontano da Palermo.

All’età di tredici anni comincia a giocare a calcio all’Oratorio dove, durante una delle tante partite, conosce Paolo Borsellino, con cui si sarebbe ritrovato prima sui banchi dell’università e poi nella magistratura.

In parrocchia si appassiona anche al ping-pong e in una partita gioca con Tommaso Spadaro, personaggio di spicco della malavita locale impegnato nel traffico di stupefacenti e oggi all’ergastolo. Non deve meravigliare che Spadaro frequentasse l’oratorio: era l’unico centro di aggregazione del quartiere, ed era un punto di riferimento per moltissimi adolescenti.

Le due fasce

Di quel periodo ci sono due ricordi indelebili che, da magistrato, Falcone porterà sempre con sé in una scatola. E’ la sorella Maria a svelarli e mostrali alla giornalista Monica Mondo, quando insieme scrivono il libro “Giovanni Falcone. Le idee restano” edito dalla San Paolo.

«Maria apre una cassettina come un reliquiario. Al fondo, sotto un mucchio di foto, c’è il portafoglio di Giovanni, il suo tesserino da magistrato, i biglietti da visita. Ancora più sotto, due strisce di stoffa bianca, raso. Sono stropicciate e conservano pieghe vecchie e affrettate: la fascia della prima comunione, e quella della cresima. Stanno lì da settant’anni. Giovanni le aveva conservate. Quello che hai ricevuto come insegnamento nella vita resta per sempre» (Avvenire, 20 maggio 2017).

Il collaboratore depresso

Quel “per sempre” lo dimostra anche la profonda umanità del giudice. La sorella ricorda un aneddoto:

«un collaboratore di giustizia che doveva essere interrogato a Nizza, ma che era sempre più depresso, non mangiava e non parlava. E Giovanni Falcone fa arrivare la moglie e la figlia facendogli capire che si rendeva conto della sua sofferenza. Da lì è nata la confessione, che non era estorta, ma che era nata da un rapporto umano, di fiducia. Lui Diceva: “Anche nel più efferato dei delinquenti io devo vedere l’uomo”, e questo non è scontato» (Famiglia Cristiana, 22 maggio 2017).

La lezione di Kennedy

D’altro canto Falcone amava mettere in pratica con i fatti quella lezione di un suo grande idolo, J.F. Kennedy che ripeteva spesso:

“Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana”

La storia di immigrazione di padre Pio: come i sacrifici di suo padre lo hanno portato al sacerdozio

Di Philip Kosloski

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Francesco Forgione, il futuro padre Pio, nacque in una povera famiglia contadina a Pietrelcina. C’erano ben pochi soldi, e i suoi genitori non sapevano leggere né scrivere. Nutrivano tuttavia grandi speranze nel fatto che il figlio potesse un giorno seguire la sua chiamata a diventare sacerdote.

Da ragazzo il futuro padre Pio aveva infatti espresso ai suoi genitori il desiderio di diventare religioso, e loro chiesero a una comunità di frati cappuccini locale se lo avrebbe accettato. All’epoca il ragazzo aveva seguito solo tre anni di istruzione pubblica, e i frati risposero che per ammessi ne servivano di più.

Convinto che il figlio fosse destinato a diventare sacerdote, il padre del futuro padre Pio, Grazio, fece una priorità del fatto di guadagnare il denaro di cui il giovane aveva bisogno per garantirsi un’istruzione, e anziché cercare lavoro in loco si recò nella “Terra delle Opportunità”, gli Stati Uniti d’America.

Grazio lavorò come bracciante in Giamaica, a Long Island (New York) e a Flushing, sempre vicino New York. Grazie al suo lavoro riuscì a inviare a casa il denaro sufficiente per garantire l’istruzione di Francesco. Un tutore lo istruì al punto che a 15 anni, il 6 gennaio 1903, riuscì a entrare nel noviziato cappuccino, iniziando così il suo percorso verso il sacerdozio.

Secondo un parente, “quando [Grazio] tornò a Pietrelcina la gente gli chiedeva: ‘Dove hai trovato lavoro? Dove stavi?’, e quindi a Flushing si è sviluppata una piccola enclave italiana”. È per questo che alcuni parenti di padre Pio si sono trasferiti a New York, creando un rapporto unico tra il popolare santo italiano e gli Stati Uniti.

Uno dei santi più popolari di tutti i tempi è quindi riuscito a diventare sacerdote solo grazie al duro lavoro di suo padre a New York.

Che fine hanno fatto i diritti umani?

Si è celebrato nelle scorse ore il 25esimo anniversario della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani. Un anniversario complicato, per le tante violazioni compiute in varie parti del globo, e perché, dopo gli Stati Uniti, anche Israele ha appena annunciato l’intenzione di lasciare il Consiglio dei Diritti Umani. Non a caso, nel suo schietto discorso, l’Alto Rappresentante ONU per i Diritti Umani, il principe giordano Zeid Ra’ad Al Hussein, ha detto che, a un quarto di secolo da allora, il mondo sembra essere guidato “in tutt’altra direzione”.

In quale direzione? “Indietro”, ha specificato l’Alto Rappresentante, “ad un panorama di nazionalismo sempre più stridente e a somma zero, dove gli interessi a breve termine gelosamente custoditi dei singoli leader superano la ricerca di soluzioni ai nostri mali comuni”. Viviamo, per Al Hussein, in “un’era di disprezzo per i diritti delle persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case, perché le minacce che affrontano sono più pericolose dei pericoli del loro viaggio”. 

“Indietro”, ha proseguito, “in un periodo di guerre per procura, regionali e globali, in un tempo in cui le operazioni militari potevano colpire deliberatamente civili e ospedali e gas chimici potevano essere apertamente utilizzati a scopi militari”. “Indietro”, ha chiosato, “in un’epoca in cui le critiche venivano criminalizzate e l’attivismo per i diritti umani portava alla prigione, o peggio”.  Un panorama fosco, quello dipinto da Al Hussein. Che qualche mese fa non risparmiò una piccata critica alla gestione italiana della crisi migratoria, definendo l’accordo tra Roma e Tripoli per contenere i flussi migratori verso l’Europa “inhuman”, “inumano”.

Proprio in tale contesto, la celebrazione del 25esimo anniversario della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani assume un’urgenza ancora maggiore. Perché riporta alle menti quel 1993, quando 171 Stati del consesso internazionale adottarono la Dichiarazione di Vienna e il Programma di azione, proprio allo scopo di rafforzare i diritti umani nel mondo. Un evento visto come la pietra angolare per i diritti nel mondo post-Guerra Fredda.

Introducendo la Conferenza di martedì, Al Hussein ha in particolar modo denunciato la deriva in corso verso un mondo in cui “razzisti e xenofobi rintuzzano deliberatamente le scintille dell’odio e della discriminazione nell’opinione pubblica”, alzando il livello di attenzione sull’Europa, dove movimenti “etno-populisti” “fomentano odio e divisione”, diffondendo “visioni false e distorte” sui migranti e sull’attività degli attivisti dei diritti umani.

Sottolineando le numerose minacce che affliggono i diritti umani in tutto il mondo, non più trattati come priorità ma “come un pariah”, l’Alto Rappresentante ha lanciato un appello globale: quello di difendere il valore e il significato della Dichiarazione di Vienna. “Dobbiamo usare questo anniversario per cominciare a mobilitare una comunità sempre più ampia, per difendere i diritti umani con la nostra forza e il nostro impegno appassionato”. Perché quello che stiamo vivendo, ha chiosato, è un “punto di svolta”: e la speranza è che la Dichiarazione non finisca per diventare un pezzo da museo delle cere, ma, piuttosto, “la bandiera per un movimento rinascente per costruire la pace e il progresso”.

Quel sermone al “royal wedding” che tutti dovrebbero ascoltare

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di Catholick Link – Ruth Baker

In base alla regione del mondo in cui vivete, potreste aver notato che nel weekend ha avuto luogo un certo “royal wedding”, e anche se non lo avete guardato potreste aver notato che a fare subito tendenza non è stato solo l’abito della sposa, ma un sermone. Forse per la prima volta nella storia di Internet, un sermone cristiano ha fatto tendenza sui social media e le risposte ad esso sono diventate virali.

Si potrebbe dire molto su quel discorso. È stato pronunciato dal vescovo Michael Curry, della Chiesa episcopale degli Stati Uniti. Non tutti i suoi punti di vista sono in linea con gli insegnamenti della Chiesa cattolica, ma non è su questo che vorrei concentrarmi, preferendo commentare le reazioni a lui e al suo sermone.

Da britannica che guardava il royal wedding, è stato piuttosto buffo vedere che la formalità dei reali veniva sfidata dal discorso trascinante del vescovo Curry e sapere che non siamo solo noi mortali a ridacchiare in chiesa di tanto in tanto. È stata una boccata d’aria fresca vedere una persona predicare con passione, entusiasmo e mancanza di riserve (cosa a cui in Gran Bretagna non siamo molto abituati), per non parlare dei suoi riferimenti alla schiavitù, a Martin Luther King, all’amore e a un gesuita cattolico romano.

Quello che mi ha davvero colpito, però, è stata la reazione secolare seguita al sermone. Il sito della BBC, notoriamente parziale e secolare, ha scritto vari articoli positivi al riguardo, come ha fatto anche The Guardian, la cui giornalista ha scritto che “il sermone di Curry è stato uno dei tre momenti del royal wedding in cui mi sono commossa. Non mi aspettavo che mi facesse quell’effetto. Avevo pensato che sarei rimasta solo pieno di fredda indignazione per la pompa e l’indulgenza aristocratica della giornata”.

Ho colto qualche conversazione in pubblico al riguardo. Un ospite – un giocatore di rugby britannico – intervistato dopo il matrimonio ha affermato che pensava fosse “un messaggio che andava ascoltato”, e Twitter, Facebook e Instagram sono stati inondati di meme e commenti – alcuni divertenti e irriverenti, o solo sorpresi – sulla situazione. Eccone qualcuno:

Ovviamente alcuni commenti sottolineano umoristicamente le differenze tra la cultura americana e quella britannica, ma qualcosa in questo discorso ha catturato l’immaginazione del mondo. È raro che il cristianesimo sia positivamente sotto i riflettori, e noi cristiani faremmo bene a chiederci perché. Non ci si aspetta sicuramente che assecondiamo il mondo, e il fulcro dell’essere cristiani è aspettarsi la persecuzione, ma quello a cui credo che il mondo stia rispondendo in questo sermone virale è questo: “Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza” (2 Timoteo 1, 7).

Quello a cui il mondo sta rispondendo è quel fuoco, quel coraggio, quella passione disposta a sostenere quello in cui crediamo davanti a tutto e tutti. Non dovremmo avere una fede timida, e tuttavia spesso esitiamo ad essere aperti sulla nostra fede, temiamo di essere entusiasti al riguardo per paura di quello che la gente potrebbe pensare o di come potrebbe giudicarci.

Non sto suggerendo che dobbiamo essere esattamente come questo predicatore. Dobbiamo rispettare la nostra personalità e i doni individuali che Dio ci ha dato, che potrebbero essere meno espliciti di quello che abbiamo visto al royal wedding, ma quello che tutti noi potremmo fare è cercare di capire se siamo timidi riguardo alla nostra fede. Lo spirito parla allo spirito, e nelle conversazioni quotidiane la gente non vuole impegnarsi in una fede che viene presentata in modo esitante, o con imbarazzo o mancanza di convinzione. La gente vuole impegnarsi in una fede solida, non apologetica, entusiasta e sufficientemente fondata nell’amore di Cristo da capire che indipendentemente dal potenziale di persecuzione sappiamo bene cosa sosteniamo. La gente è molto attratta dalle persone che sanno da dove vengono e dove vanno e che non si scusano per questo. Possiamo dire questo di noi stessi e della nostra fede?

E allora non è tanto il contenuto del sermone che vorrei commentare – per quanto sia importante –, quanto la reazione del mondo. Al di là dell’umorismo, penso che possiamo esserne incoraggiati. Chiedete forza, coraggio e audacia nella vostra fede, e dei modi per mostrarla agli altri quando è necessario. Il mondo non vuole, o non ha bisogno, delle nostre scuse o del nostro imbarazzo. Vuole un messaggio chiaro, non diviso, diretto. Vuole la verità, e indipendentemente dalla reazione dobbiamo continuare a dire quella verità. Dobbiamo annunciarla con gioia, calore e amore, come ha fatto il vescovo Curry, e si noterà.

Etiopia: solo Dio e i missionari si ricordano del dramma umanitario

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Drammatica “Lettera dal deserto” di padre Christopher Harley

Pubblichiamo il passo centrale della lettera scritta a Pentecoste dal sacerdote Christopher Hartley, missionario in Etiopia, sul dramma umanitario che vive la regione e sull’impegno dei missionari a dare speranza alla popolazione.

Tra le meraviglie divine della tenerezza che Cristo ha manifestato nella mia vita e che vorrei irradiare ogni giorno a tutto ciò che mi circonda, vorrei condividere con voi le gioie e le sofferenze della gente di questa missione, perché voi, miei cari amici, siete una parte essenziale e insostituibile, visto che senza di voi nulla di ciò che si è fatto, nulla di quello che è stato raggiunto sarebbe stato possibile.

Siccità e inondazioni

Come ben sapete, da vari anni tutta questa vastissima regione del Corno d’Africa soffre le conseguenze implacabili di una siccità costante ed endemica che ha distrutto la vita di milioni di persone.

La desolazione, la polvere sterile a cui si sono ridotte le coltivazioni di questa povera gente, il vagare affamato del bestiame e le carcasse di una variopinta quantità di animali diventati carogne per le iene sono lo spettacolo che ci accompagna giorno dopo giorno nella nostra opera missionaria.

Penso alla famiglia del povero Amir e di sua moglie Leila, con i loro sette figli. Per anni hanno cercato di piantare solo con la forza delle loro mani papaya e altri semi a breve ciclo come il mais. Nel mio andirivieni dalla missione alla città vedevo tutta la famiglia seminare ai margini della strada. Tutti lavoravano, e i più piccoli si dedicavano a raccogliere sassi con le loro manine per tirarli agli uccelli… ma non avevano denaro per pagare il combustibile della pompa che doveva portare l’acqua dal fiume.

Dipendevano dalla pioggia per sussistere, e la pioggia si è dimenticata della regione somala dell’Etiopia. Amir e Leila, con tutta la loro famiglia, un giorno sono scomparsi… continuo a passare ogni giorno davanti ai loro campi, ma non vedo papaya né banane, né mais… si sono arresi, si sono stancati di aspettare la pioggia. Non so dove siano andati. Gli uccelli dilagano, nessuno coltiva più la terra, né taglia l’erba o toglie le erbacce.

La siccità ha distrutto questa gente. Il vento impetuoso dei mesi estivi ha provocato un’erosione terribile della vegetazione di queste terre prima tanto fertili.

Ma amici miei, questo è un Paese di estremi. Oggi non è la siccità ad angosciarci, ma… le inondazioni!

A Gode ha piovuto più che in altri anni nel mese di aprile e finora anche a maggio. Ringraziamo il buon Dio per questo. Il problema è che il fiume che passa per la missione, il Wabbi Shebelle, è straripato come non avevo mai visto fare nei miei undici anni di vita missionaria in Africa.

È straripato non per le piogge cadute a Gode, che sono state moderate, ma per le piogge torrenziali nella regione di Bale, dove nasce il fiume, nel cuore della regione di Oromia. È lì, su quelle cordigliere impressionanti a più di 4.000 metri di altezza, che nasce questo fiume, a quasi mille chilometri di distanza. Da mesi piove ininterrottamente e il fiume ha quintuplicato la sua portata.

Per la prima volta l’acqua ha valicato gli argini, al punto che abbiamo dovuto togliere le pompe per l’acqua perché la corrente non le trascinasse via.

Fortunatamente per noi, al suo passaggio per Gode il fiume scende profondamente, e il danno provocato dalle sue acque straripate non è molto ingente, ma nelle città più a sud, a Kalafo e soprattutto a Mustahil, i danni sono inimmaginabili.

Tutta la regione di Kalafo è stata inondata, anche il piccolo paese di Ma’aruf, dove anni fa, con il vostro aiuto, la Chiesa cattolica ha costruito una scuola per quasi 400 bambini.

Una delle precauzioni che abbiamo preso è stata quella di costruire questa scuola a un metro e mezzo dal suolo proprio perché in caso di straripamento del fiume tutta la popolazione potesse cercare rifugio all’interno delle aule.

Il peggio è toccato alla città di Mustahil, a novanta chilometri a sud di Kalafo e ad appena 65 dal confine con la Somalia. La città è letteralmente scomparsa. Tutti gli accessi stradali sono sommersi dall’acqua. In questo momento vi si può arrivare solo in elicottero.

La settimana scorsa sono andato in aereo a Gode con il presidente della regione somala,Abdi Mohamoud Omar, e tutto il suo entourage. Durante il volo abbiamo commentato la situazione di Mustahil e mi ha chiesto con vigore che la Chiesa faccia tutto ciò che è nelle sue possibilità per collaborare con il ponte aereo di tre elicotteri che si stavano dirigendo nella zona. Gli ho promesso di fare tutto il possibile per aiutare.

Uno dei veicoli è stato messo immediatamente al servizio dei piloti militari per aiutare il trasporto di cibo e medicinali. Io stesso mi sono recato nella zona del disastro in elicottero. Durante il tragitto di oltre 180 chilometri da Gode a Mustahil, e mentre sorvolavamo le vaste pianure che scendono pigramente verso la Somalia, il panorama era da brividi: villaggio dopo villaggio sommerso dall’acqua, bestiame che vagava senza una direzione, greggi intere affogate nelle lagune.

Queste inondazioni sono anche causa della diffusione di molteplici epidemie – colera, malaria, febbri tifoidi, problemi gastrici di varia indole dopo aver ingerito acqua contaminata, nuvole di zanzare portatrici di varie infezioni…

Arrivati in elicottero, la prima cosa che abbiamo fatto è stata scaricare gli aiuti che avevamo portato. La gente correva impazzita e disperata; i militari, con pali e bastoni, riuscivano a malapena a contenere quella povera gente. Non mangiava da giorni; non c’era più acqua da bere se non quella delle lagune impantanate frutto delle inondazioni.

Mi sono avvicinato alle persone, riunite intorno alla gigantesca laguna. Mi hanno accolto con l’affetto tipico dei somali quando sanno che vuoi aiutarli. Mi sono presentato loro, ho detto che ero un sacerdote cattolico e che venivo da loro perché volevo veder con i miei occhi la portata della tragedia per sapere meglio come aiutarle.

Mi hanno detto che c’erano molti malati e che varie persone che erano entrate in acqua cercando tra le rovine delle loro case qualcuno dei loro scarsi averi erano state attaccate e morse dai coccodrilli. I coccodrilli vivono in una determinata zona del fiume e lo conoscono bene. Quando il fiume straripa, il coccodrillo si allontana dalla zona originaria e cerca la riva per riposare, ma la riva non è più dove si trovava… Quando le acque si ritirano i coccodrilli non tornano nel fiume, ma restano intrappolati nelle grandi lagune che si formano. Sono affamati e attaccano in modo indiscriminato.

Ho sentito davvero quello che racconta il Vangelo della vita di Gesù mentre parlava alle genti accanto al lago di Genesaret: “La folla gli faceva ressa intorno” (Lc 5, 1).

Abbiamo promesso di portare aiuto. Ci chiedono cibi non deperibili (farina, latte in polvere, soia, riso, olio, zucchero…), medicinali di prima necessità, zanzariere, utensili per cucinare, tavolette per depurare l’acqua, bottiglie, teli per proteggersi dal sole implacabile…

VI PREGO DI AIUTARCI COME POTETE. L’HO PROMESSO AL PRESIDENTE IN NOME DI CRISTO E DELLA CHIESA CATTOLICA.

 Nairobi

Qualche settimana fa sono andato in Kenya per mandato del nostro vescovo per incontrare suor Anastasia Kamwitha, superiora provinciale della congregazione delle Suore di San Giuseppe di Tarbes (di origine francese), per invitare le religiose a fondare una nuova comunità a Gode.

Siamo cresciuti molto e non ce la facciamo ad affrontare da soli tanto lavoro. Il vescovo ci chiede di andare oltre Gode, di cercare nuove città e nuovi villaggi in cui far conoscere il Vangelo della salvezza in Cristo Gesù. A nord ci aspettano Denan e Kebre Deher, a est Shilavo, a ovest, attraversando il fiume fino alla Prefettura Apostolica di Robe, ci aspetta Hargele, e a sud Kalafo, Mustahil, Ferfer…

È stata una visita stupenda, le suore erano meravigliose e se fosse dipeso da loro sarebbero salite con me sull’aereo che doveva riportarmi in Etiopia. La questione verrà discussa con la Superiora Generale alla fine di giugno. Vi chiedo di pregare molto per questa intenzione. Chiedete intensamente allo Spirito Santo di Dio di effondere abbondantemente tutto il suo potere. Egli è il grande protagonista dell’opera missionaria della Chiesa, Colui che la incoraggia e la rafforza, che la colma dei suoi sette doni e dei molteplici carismi.

Per questa regione abbiamo bisogno di una comunità di religiose missionarie e di un altro sacerdote. Nutriamo un’enorme speranza nel fatto che il buon Dio ci benedirà con un raccolto abbondante di missionari, uomini e donne consacrati a Dio con il cuore traboccante di amore indiviso e fuoco missionario nell’anima.

 Una Veglia pasquale indimenticabile

Il Triduo Pasquale è il momento culminante della vita spirituale della Chiesa. È la Pasqua del Signore, e con Lui tutti passiamo dalla morte alla vita. Quest’anno abbiamo celebrato due Battesimi e Prime Comunioni e Cresime. Una delle donne del nostro programma TAMARA per donne malate di AIDS e sua figlia sono state battezzate. Tahiba ha ricevuto il nome di Miriam, sua figlia si è battezzata con il nome di Laura.

Un ragazzo di vent’anni, Alex, dopo un cammino di fede di più di due anni, ha chiesto di passare dalla Chiesa ortodossa alla Chiesa cattolica, e nella Veglia pasquale, dopo aver pregato in ginocchio il Credo della nostra fede, ha ricevuto la Prima Comunione.

È difficile descrivervi con la povertà delle parole umane la profondissima emozione che ha provato quel pugno di cattolici in quella notte benedetta, accoccolati intorno al fuoco, accanto al cero pasquale – fiamma d’amore – e al fonte battesimale, accanto all’altare del sacrificio e della vittoria di Gesù Cristo, vincitore della morte, del peccato e del demonio.

Tahiba era una prostituta. Suor Joachim l’ha trovata in mezzo alla strada, completamente ubriaca e che gridava cose oscene. La suora non si è scomposta; le ha parlato con affetto, l’ha conquistata, l’ha invitata ad aderire al programma TAMARA. La domenica è venuta a Messa, e da allora non ha più smesso di farlo. Sono trascorsi quasi due anni.

Un giorno Tahiba ha detto alla suora: “Voglio far parte di quella religione che ti fa essere tanto buona…”, ed è diventata cattolica. Tahiba è diventata Miriam!

Nel corso di tutto il suo cammino catechetico le abbiamo chiesto spesso se non aveva paura delle rappresaglie della gente della sua religione e dei mullah delle moschee, e ha detto sempre di no. Sapeva quello che faceva.

Arrivano sempre più bambini

Ogni giorno vediamo aumentare il numero di bambini e bambine che partecipano al programma del mattino. Se continuiamo così l’autobus diventerà piccolo! Nella maggior parte dei casi sono ragazzini che la mattina non fanno niente perché vanno a scuola solo il pomeriggio.

Arrivano insieme alle donne di TAMARA, sull’autobus, diamo loro una buona colazione e iniziano le lezioni: lavori manuali, matematica, inglese, lavoro di squadra… poi c’è la ricreazione, e vanno al fiume, giocano a palla, si bagnano nelle pozzanghere… Tornano a casa e si lavano. Poi seguono altre lezioni o vedono qualche film educativo.

Questo programma ci ha dato una gioia enorme. I bambini si divertono a tal punto che chiedono di venire la domenica pomeriggio a giocare, fare merenda e vedere un film. Kung-Fu Panda e Spiderman sono i preferiti, credo che li abbiano visti circa trecento volte… Ritengono che la Chiesa sia la loro casa e noi la loro famiglia.

Sono sicuro che con l’arrivo dei missionari di quest’estate potremo offrire ai bambini un ottimo programma educativo. La maggior parte di loro è ortodossa, altri sono musulmani, ma sono tutti amici e noi amiamo tutti allo stesso modo.

Acqua pulita per la popolazione

Con l’aiuto di molte istituzioni (non voglio menzionarne nessuna perché me ne sfugge sempre qualcuna e poi mi dispiace), e soprattutto con gli apporti di tanta gente meravigliosa che ci sta aiutando con straordinaria generosità, stiamo costruendo costruire un sistema di depurazione dell’acqua del fiume che consiste in una piscina per più di 200.000 litri di acqua di fiume che sembra Cola-cao e che passando poi per un sistema di depurazione e filtri verrà portata in una cisterna elevata con una capacità di 50.000 litri.

Se qualcuno volesse collaborare a questo progetto che avvieremo al massimo tra due settimane, trovate i dati del conto della Fondazione alla fine di questa lettera.

Denan

A poco a poco la passione missionaria ci spinge ad aprire nuovi fronti, perché la forza espansiva del Vangelo invada tutto con la presenza dello Spirito di Cristo vivo. Alcuni mesi fa il sindaco della città di Denan, situata a circa 70 km da Gode, ci ha invitati a visitare la sua comunità per poter aiutare tanta povera gente.

Non abbiamo avuto un attimo di esitazione e siamo andati con i nostri furgoncini carichi di medicine e con gli zaini contenenti materiale scolastico per centinaia di bambini.

Abbiamo percorso centinaia e centinaia di chilometri su strade polverose. Le scuole erano orribili e gli scarsi centri sanitari erano in condizioni deplorevoli. Abbiamo promesso di aiutare.

Grazie a tutte le vostre donazioni abbiamo potuto realizzare due postazioni mediche nelle quali abbiamo assistito più di 300 malati e distribuito tonnellate di medicinali. Abbiamo fabbricato oltre 80 banchi, visto che in alcune scuole i bambini sedevano a terra, e distribuito più di cento zaini pieni di materiale scolastico.

È tutto, miei cari amici. Ringraziamo tutti a nome di tanta gente povera che non può farlo da sé. Chiedo alla Santissima Vergine Maria, Madre della Chiesa, Madre dei missionari e Madre dei poveri, di coprire tutti noi col suo manto benedetto.

Di fronte al Tabernacolo della missione preghiamo ogni giorno per voi.

Padre Christopher

 

Si può collaborare con la missione di Gode attraverso la sua pagina web ufficiale: http://www.missionmercy.org/en/